Foto di Stefano Spangaro - Cral Voltois

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Vita genuina di montagna ... Voltois UD

sabato 22 agosto 2015

Lago di Redona parte seconda


Per gentile concessione di Giacomo Miniutti del gruppo La "Valcosa" e dintorni di FB, vi aggiorno su questa bellissima storia legata al Lago di Redona e il prete venuto da Movada ... paese sommerso dall'acqua per formare un lago artificiale.


LAGO di REDONA
parte seconda

Giacomo Miniutti ha condiviso il suo post.
Giacomo Miniutti ha condiviso il suo post.
foto di Giacomo Miniutti.

Il PRETE VENUTO DA MOVADA
Tratto da "Guardaci dal Peggio" - Edizioni Biblioteca dell'Immagine.

Don Basilio Miniutti nato in Movada
Il due gennaio 1898

Forse il lettore ricorderà la conta sulla creazione del mondo, dove l’agna Liti sosteneva che il buon Dio, avendo timore di fare una cosa storta, creò per prima la Val Tramontina; poi giacché gli apparve “cosa più che buona” completò l’opera come sta scritto nella Genesi. Fu una valle stupenda, di grandezza contenuta ma senza l’attuale lago. Circondata da montagne boschive e poco elevate. Con torrenti e ruscelli che finivano nella Meduna, ricca di trote, gamberi e morsôns. C’erano prati da fieno, orti e campi da coltivare. Né mancavano sassi, sabbia, acqua e legname per fabbricare le case.
Gli uomini, ma anche le donne, non risparmiarono fatica e sudore. Fecero le fornaci da calce, che impastata con sabbia e acqua diventava malta e teneva legati i sassi delle murature.
Oltrepassata la forra del ponte Racli, sulla strada vecchia, fu edificata Redona: un vero paesello con chiesa, scuola e osteria. Univa i due versanti un ponticello ad arco e in pietra, tanto sottile da paragonarlo alla pertica, il racli, che nel campo sosteneva i fagioli. Seguitando poi, controcorrente come le trote, sulla piana dove scorre la Meduna, si arriva allo spazioso pianoro dove fu costruito il borgo di Movada. Più avanti c’era il mulino del Flôur e a un tiro di schioppo l’omonimo borgo. Più in alto dell’alveo, quasi in previsione del lago, costruirono casa Miar e il Pecòl, e sul versante opposto Prapitòl, Faidona, la borgata di Muinta e casa Versivès. Proseguendo sulla manca verso il primo Tramonti, dopo i prati del Pirôl, in un avallamento a ridosso della montagna, costruirono le case di Cornèra e Quâl di Pêr. Gli abitati della Silisia sono tralasciati, perché marginali alla nostra storia.
Superato lo stretto giro della Clevata, il greto della Meduna si allarga di nuovo. Però diventa ghiaioso, pieno di massi e arbusti, da non essere più coltivabile e ancor meno abitabile. Così i tre Tramonti furono costruiti su altopiani diversi: ampio e agevole quello di Sotto, più contenuto e a ridosso della montagna quello di Sopra ma ricompensato da un bel piano, posto a dritta del viandante diretto al monte Rest, infine quello di Mezzo, stretto e ripido, più disagiato e senza conguagli.
Ritornando a borgo Movada, sempre dalla conta, si apprende che l’Onnipotente in quel luogo piantò il giardino dell’Eden, e poi creò Adamo ed Eva. L’agna Liti rimarca che in quelle case nacque il suo Filissi. Però, benché donna di profonda fede, non evidenzia, sicuramente per riserbo e rispetto, che fra quelle mura nacque anche Don Basilio Miniutti, cugino del nonno Felice Miniutti.
Di sicuro il Creatore, già in quel tempo, aveva prestabilito che, un dì, un suo umile e povero Apostolo trovasse la vocazione al cammino sacerdotale partendo proprio da quell’incantevole borgo.
Basilio venne al mondo il due gennaio 1898. Aveva un fratello di nome Giuseppe. Il padre, Felice Miniutti, faceva il boscaiolo nelle foreste Germaniche. La madre, Angela Da Prat, accudiva alla famiglia, coltivava l’orto e il campo, governava la stalla, faceva fieno nei prati e legna nel bosco. Il piccolo Basilio passò la sua infanzia e la fanciullezza in quei luoghi carichi di pace e spiritualità. Aiutava la mamma nei prati e nella stalla. Andava a scuola e alla Messa a Redona. I vestiti erano pochi e il cibo ancora meno. Angela aveva alcune pecore. Filava la lana con la gorletta e il fûs e sferruzzava maglie grezze che pungevano la pelle. Produceva in casa un poco di formaggio e ricotta, e il burro lo impastava nella pegna. Faceva fermentare il siero che diventava simile all’aceto, il sèç, per condire il radicchio. Poi tante patate, fagioli e polenta, delle uova e qualche gallina, ma tutto il più razionato possibile, consentivano di sopravvivere al passare degli anni.
Papà Felice era un bravo pescatore e d’inverno, quando rincasava, nella Meduna pescava il ben di Dio, e tutto il borgo mangiava pesce. Gli uomini emigranti, alla fine dell’annata, non ritornavano con grossi guadagni; bastavano per pagare il debito della bottega e per il costo del biglietto di una nuova partenza, ma almeno in quei mesi che non erano in casa, c’era una bocca in meno, e non certo piccola, da sfamare.
Così trascorrevano gli anni; Basilio cresceva e anche la vocazione si faceva sentire. Spesso la mamma lo trovava appartato lungo l’argine della Meduna, inginocchiato e in preghiera, davanti a altarini di sassi fatti con le sue mani. E nel borgo già prevedevano, orgogliosi, il loro compaesano con la tonaca lunga, nera e con trentatré bottoni. Arrivò la vera “Chiamata” con l’entrata nel Seminario di Portogruaro. In seguito giunse la cartolina di precetto militare, con un anno di battaglia sul Fiume Sacro nella prima guerra mondiale. Appena ventenne fu sergente e poi capo ufficio al comando del 47° reggimento di fanteria. In quel tempo molti di quei ragazzi erano analfabeti e andavano in trincea, con il pericolo di restarci per sempre.
Chi aveva un minimo di studio svolgeva servizio nella sanità o nella sussistenza, con più probabilità di tornare a casa sano e salvo. Suo cugino Felice nato nel 1885, aveva tredici anni di più, fu richiamato alle armi e combatté sullo Stelvio; raccontava di essersi salvato grazie alla tanta esperienza.
Se avanti la guerra c’era miseria, alla fine, nel borgo, ne avevano fin sopra i capelli. Con la cacciata dello straniero si conquistò la libertà ma non si riuscì a mandare via, come si diceva, “la pellagra”. Basilio ritornò in Seminario. Gli fu sospeso il pagamento della retta, vista la povertà della famiglia d’origine e, forse, anche in virtù della sua profonda fede e vocazione. Era il dodici di luglio, nell’anno del Signore del 1925, quando il Vescovo della Diocesi di Concordia, Monsignore Paulini Luigi, lo ordinò sacerdote presso la chiesa della Beata Vergine delle Grazie a Pordenone.
Quel giorno tutto il borgo Movada, fuorché una donna, scese in città; era una sorta di riscatto alla malasorte. Quel prete dava un significato ai sogni e alle speranze di ciascuno di loro e li ricompensava. Ogni famiglia, durante gli anni del Seminario, aveva aiutato la famiglia di Basilio rendendogli meno grama la via per diventare ministro di Dio. Essere un reverendo, in quei tempi, era un fatto straordinario, e ancora di più se si proveniva da luoghi e famiglie dimenticate dal resto del mondo.
Rientrati a Movada, quella sera, governata la stalla e mangiato un boccone, tutti andarono a dormire presto perché affaticati e non usi a viaggi e cerimonie. Ma nessuno riuscì a chiudere occhio. Questo secondo i ricordi di Elda Miniutti detta la contessa; un soprannome datole proprio da don Basilio. Sarà poi una singolarità, per tutta la sua vita sacerdotale, quella di appioppare nomignoli.
La contessa raccontava che quella notte la luna era talmente bassa sopra il borgo da poter prenderla con le mani. Era piena come una palla infuocata e illuminava più del giorno. Nelle case si udivano rumori insoliti, si sentivano battere porte e scuri, e nei cortili pareva che trascinassero delle catene. Nelle stalle, le vacche erano in piedi adombrate come cavalli infuriati e muggivano da affamate. Sui fienili, gli uccelli del malaugurio erano un interrotto canto di disgrazie. I comignoli delle case fumavano come in pieno inverno, senza che i ciocchi sul larin ardessero. Sotto la montagna, la Meduna rumoreggiava come quando c’era la grande piena. Barba Pauli, più temerario degli altri, andò a vedere. Riferì che l’acqua, anche se erano giorni che non pioveva, era alta e correva più del treno che lo aveva portato emigrante in Francia; mentre le trote andavano al contrario, seguendo la corrente e i gamberi camminavano in avanti. Nessuno si accorse quando la luna cedette il posto al sole. Venne l’ora di governare la stalla e tutti si alzarono, ma le vacche non si lasciarono mungere.
Nel borgo abitava una signora venuta da Campone, detta la cjampona, ma sottovoce era chiamata la maga. Non andava d’accordo con nessuno e qualche diavoleria l’aveva più di qualche volta combinata. Come quella di fare gonfiare la pancia alle vacche o di prosciugare la mungitura. Oppure far trovare dentro i cuscini e tra le lenzuola, di qualche famiglia, dei chicchi di granoturco o ciuffi di capelli aggomitolati. Poi qualche bambino si ammalava senza motivi e qualcun altro si rifiutava di mangiare. I malcapitati andavano in paese a chiamare il prete, che solerte arrivava per la benedizione e i dovuti scongiuri, e tutto si normalizzava. La cjampona era piena di miseria, più di tutti gli altri. Quando non aveva proprio nulla da mangiare, si sedeva sulla sponda della Meduna. Per ore fissava l’acqua corrente, finché riusciva a far saltare un paio di belle trote dall’acqua fino sul prato. Cadendo rimanevano stordite, ed era facile prenderle e poi cucinarle su quattro tizzoni ardenti.
Ma nonostante questi fatti, pensare che tutto quel quarantotto fosse opera sua forse era un azzardo. Così, sempre barba Pauli, che era il più anziano del borgo, andò a casa a chiederle spiegazioni.
La maga gli riferì che quel dì, rimasta sola nel borgo, ricevette la visita del Diavolo. Era furibondo perché era stato consacrato un altro ministro di Dio. Quel nuovo prete era un pericolo e un ostacolo in più per i sui piani diabolici. E siccome era di quel borgo ed era stato aiutato dai suoi compaesani, costoro si meritavano la giusta punizione. Le ordinò di dargli una mano: doveva stare tutta la notte in piedi al centro del cortile, rivolta verso la casa di Basilio, come un pennone ricevitore di segnali, e al resto avrebbe pensato Lui. Le anticipò che poi tutto sarebbe terminato con quella terribile nottata. E così avvenne. Dopo quell’evento anche la maga si acquietò. Si dice che un giorno, mentre cercava di far saltare fuori dall’acqua le trote per cenare, videro lei fare un salto nella Meduna.

Don Basilio iniziò il suo Ministero facendo il Cappellano a San Vito al Tagliamento, e colà rimase fino al 1930. Ogni anno tra maggio e giugno ritornava al borgo per un breve periodo di riposo. Passeggiava nella piana o lungo la sponda della Meduna leggendo il breviario. Poi andava fino a Tramonti di Sotto a pregare sulla tomba dei suoi genitori. La sera, dopo la frugale cena, la contessa sul davanzale esterno della cucina preparava un altarino, con la Madonnina di Lourdes dentro la grotta. E tutti assieme recitavano il Santo Rosario. - Quell’immagine sacra è tutt’oggi conservata dalla figlia della contessa, Ivana Crovatto -Miniutti, che è anche la fonte di questi particolari avvenimenti.-
Gli fu raccontata anche la sconvolgente nottata che il borgo passò il giorno della sua Ordinazione. Li consolò dicendogli che lo sapeva, perché anche lui quella notte subì le tentazioni. Ma uscì libero. Spiegò che il Diavolo fin dalla Genesi aveva fatto malanni, e anche grossi. Così che da allora l’umanità seguitava a pagare le conseguenze; come diceva anche l’antica conta, alla quale lui credeva. E il riparo, da questo pericolo, stava nella fede, nella preghiera e in una vita timorata di Dio .

Dalla piana ritornò ai monti, e fu parroco di Claut per oltre sei anni, fino al 1936. Il paese e i luoghi erano simili a quelli natii, forse più disagiati da raggiungere e le persone un poco diverse nella parlata, e più taciturne e riservate nei rapporti. Anche da Claut, quando poteva, ritornava al suo borgo, alle volte anche a piedi attraverso la forcella clautana, che permetteva di raggiungere la Selva, poi Chievolis, Muinta e giù a Movada, attraversando la Meduna su un ponticello di legno.
E di nuovo verso il piano. Per quasi dieci anni fu arciprete e anche Vicario Foraneo a Travesio, fino al 1946. Qui trascorse i terribili anni della seconda guerra, e anche la parte finale della discordia: la cosiddetta lotta di “liberazione e di resistenza”. Furono anni duri, di fatiche, paure e miseria. Uomo di Dio e timorato di Dio, qual era, seppe destreggiarsi; aveva già l’esperienza dell’altra guerra, ma questa era diversa, disorientava, non si capiva con chiarezza chi fosse il nemico da cacciare. Chi era il buono e chi il cattivo. Aiutò senza esitazioni indistintamente tutti, riuscendo a mediare situazioni intricate e pericolose. E con altrettanto vigore denunciò per iscritto, a chi di dovere, i comportamenti incivili e disumani che purtroppo accaddero, e dei quali fu testimone. Fu benvoluto dalla popolazione e stimato dai preti della forania, tanto che il Podestà, in sentore di un suo trasferimento, scrisse una lettera al Vescovo, Monsignore Vittorio D’Alessi, per una proroga e una delegazione di donne andò in Curia a spiegare le motivazioni, così da ottenere un lungo rinvio al trasferimento.
Durante quegli anni turbolenti poté poche volte e di fretta ritornare al borgo, e ciò lo sconfortava.
Poi ancora con la tenda in spalle, verso la bassa pianura, per accamparsi a Giai di Gruaro. Era l’otto febbraio del 1946. Toglierà la tenda, per l’ultima volta, il primo maggio del 1962, il giorno che ritornò alla casa del Padre. Fu sepolto, e tuttora riposa, nel camposanto di Tramonti di Sotto.
In quegli anni a Ponte Racli iniziarono i lavori per la costruzione della diga. La società costruttrice, la S.A.D.E., liquidò con “quattro” lire terreni e fabbricati, ma se anche fossero state “otto” le lire, non avrebbero comunque ricompensato il dolore provato da quella gente nell’essere sradicata dai suoli dov’erano venuti al mondo. Nel 1950 la corsa della Meduna cozzò contro la montagna di cemento; Redona, Movada e il Flôur con il suo mulino, lentamente furono coperti dall’acqua. Le famiglie di Cornèra e Quâl di Pêr ebbero la già instabile passerella distrutta, e rimasero isolate. Con una barca, Gjelmin, che aveva fatto il marinaio, traghettava quei disgraziati, come Caronte, da una sponda all’altra. Poi l’impresa edile di Durat Osvaldo, detto Lalo, di Tramonti di Sopra, prese l’appalto per la costruzione di una passerella con funi d’acciaio, pilastri di sostegno in calcestruzzo e camminamento in tavolato.
Ma in breve anche quegli ultimi abitanti se ne andarono; oltrepassarono il Ponte Racli per raggiungere lidi più comodi e redditizi, lasciando però una piccola parte di loro in quei territori.
Anche per don Basilio erano intensi e radicati i sentimenti d’appartenenza al luogo natale, così che donò alla Pieve di Santa Maria Maggiore, di Tramonti di Sotto, il nuovo pavimento, come rimarca la scritta fra il primo e il secondo contrafforte della chiesa. “A suffragio dei suoi antenati, a perenne memoria della borgata Movada sommersa dal bacino idraulico di Ponte Racli, il Sacerdote Basilio Miniutti fu Felice, nell’anno Santo 1950 donava questo pavimento, all’antica chiesa che lo accolse bambino. Segnandogli la via al sacerdozio di Cristo. Pregate per l’anima sua”.

Non potendo più recarsi nel suo borgo, don Basilio in estate veniva una settimana in Moschiasinis a fare visita a suo cugino Felice. Erano gli anni ’50-60 ed ho ancora vivi quei momenti. Alcuni giorni prima, arrivava la cartolina che annunciava l’arrivo. Era un onore avere ospite un prete e motivo d’orgoglio verso le altre famiglie. La mamma e l’agna Liti cercavano di riassettare e pulire tutta la casa, compresa la stalla, e svuotavano pure il condòt, disinfettandolo con un’imbiancata di calce spenta. Andavamo ad attenderlo alla fermata della corriera di Pupin, nella curva sotto il Pecòl. Appena sceso guardava verso Movada. Faceva il segno della croce e benediva il borgo sommerso con l’aspersorio. Era poco più alto del nonno, robusto, dalla faccia severa, con i capelli corti, la chierica e un po’ stempiato. Con la veste talare nera come il carbone e lunga da toccare quasi a terra. Il cappello in testa, rotondo ad ali larghe e nero. Una piccola valigia di biancheria e una borsa con libri di chiesa, la stola e l’aspersorio, erano il suo bagaglio. Ci portava candele benedette, santini di Santi e Madonne e dei cartocci con caramelle di liquirizia e di zucchero d’orzo. La povertà l’aveva indosso.
Ricordano che ad una coppia di sposi di Giai, emigranti in Svizzera, che gli annunciavano il loro matrimonio, così fra l’altro gli rispose: .
Il papà era all’estero e così io e la mamma gli lasciavamo la nostra stanza da letto e andavamo in quella a fianco. Durante il giorno passava ore, seduto sulla panca in cima la riva, a guardare il lago e a leggere il breviario. Con il nonno andava sul Pecòl, io gli correvo dietro ed ero contento perché mi chiamava “l’Apostolo” Giacomo. Se il lago era basso, giungeva fino ai ruderi di Movada.
Pregava su qui muri di sasso abbandonati, perché erano stati sacrificati al progresso e al profitto, che da allora, purtroppo, non hanno più fermato la loro corsa. Ma tutt’oggi qui muri di pietra sono ancora in piedi, a monito che l’uomo non è il padrone del creato, ma è solo una sorta di giardiniere, posto sulla terra per lavorarla, curarla e mantenerla la più intatta possibile.
Andavano poi all’osteria di Febo a bersi il mezzo litro di vino rosso. Come il cugino, non disdegnava bacco, e lo chiamava “il telefono”. Altra venialità era il tabacco da naso, “il Giustina”, nella scatoletta rotonda, e poi seguivano le grandi soffiate di naso nei fozzolettoni a quadri rossi.
A giorni alterni con la corriera andava a Tramonti di Sotto a pregare in chiesa e nel cimitero. Con sé aveva sempre un libricino con la copertina nera, che leggeva o teneva in tasca assieme all’aspersorio. Un giorno stava arrivando un brutto temporale, con nuvoloni scuri, vento forte, tuoni, lampi e una sicura grandinata. Eravamo già disperati per i fagioli e le patate che sarebbero stati flagellati, e per qualche fulmine sulla casa o nella stalla. Ma arrivò Don Basilio da Tramonti e corse difilato in camera al secondo piano. Noi restiamo nel cortile a ridosso della stalla sotto la linda. Lo vediamo sporgersi dalla finestra aperta, con la stola indosso, l’aspersorio e il librettino nero nelle mani. Sul davanzale, nonostante il vento, stanno accese due candele benedette. Lo sentiamo pregare in latino e benedire quel cielo nero e minaccioso. A ogni benedizione rispondiamo con il segno della croce, il nonno ha il cappello in mano e lo tiene sul petto in segno di pentimento. Dopo un quarto d’ora arriva una pioggerellina, ideale per annaffiare il radicchio nell’orto, il vento cessa e i nuvoloni scompaiono. Riappare il sole e, proprio sopra Movada, si forma uno splendido arcobaleno.
Quella sera, mentre si cenava polenta, radicchio e frittata con il formaggio, ci disse che proprio quel giorno aveva riempito l’aspersorio di acqua benedetta, nell’acquasantiera della chiesa di Tramonti di Sotto. E in grazie a quell’acquasanta aveva cacciato il temporale.
Un’estate quando ripartì volle portare con sé il cugino. Andammo ad accompagnarli alla fermata della corriera e mogi tornammo a casa. Il nonno restò circa una settimana a Giai di Gruaro. Senza di lui in quei giorni ci sentimmo smarriti. Come se mancasse il faro ai marinai durante la tempesta.
Ritornò con un sacco di venti chili di farina bianca per polenta e una damigianetta di vino rosso, oltre alle candele benedette. Ci raccontò che nel paese erano in prevalenza contadini, ma che il lavoro era meno faticoso e più redditizio che in montagna. Il patrono della chiesa era san Giovanni Battista; i parrocchiani erano devoti e le decime erano sempre puntuali e abbondanti. Ma il cugino era caritatevole. E ciò che prendeva con una mano, senza darlo a vedere, lo ridava con l’atra alle famiglie più bisognose. Era coerente con le Scritture. Mentre in questi tempi questa pratica è scomparsa.
<È più facile e visibile fare dibattiti e incontri sul nulla, che spezzare un tozzo di pane per l’altro>.
Don Basilio ritornò altre estati da noi e nell’ultima, quando lo accompagnammo alla corriera, il nonno, scherzosamente, gli chiese di fargli il funerale quando sarebbe giunta la signora cûl falcèt. Suo cugino così gli rispose: “Filissi, verrai prima tu al mio funerale; tu vivrai come Matusalemme”. Salì in corriera e partì. E il presagio si avverrò. Forse sapeva già o intuiva che “il brutto male”, così
era chiamato a qui tempi, l’avrebbe falciato avanti l’ora.

Don Basilio fu parroco di Giai per sedici anni e tre mesi. Il prossimo anno ricorrerà il cinquantesimo della sua morte. Ho parlato con persone che l’hanno conosciuto e che tuttora vivono in paese.
È un quadro stupendo, con una graziosa cornice: di un prete-uomo, povero, buono, umile e schietto, ma anche deciso e severo. Attento dei bisognosi ma esigente con i più fortunati. Devoto alla madre Chiesa, non sopportava indecenze e malcostumi. La cornice racconta di una terra feconda, anche se pretenziosa di fatiche e sudori; di un territorio tranquillo e armonioso con gente attaccata alla famiglia, laboriosa, onesta, di cuore e praticante dei Comandamenti.
Rammentano che stesse poco in canonica. Terminate Messa e dottrina, girava il paese a piedi o in bicicletta, veloce come un treno e anche senza le mani sul manubrio. Faceva visita alle famiglie, anche a quelle isolate e lontane. Se il capofamiglia era ricoverato in ospedale, spaccava lui la legna per il fuoco. Spostò la festa del patrono dal 24 giugno al 29 di agosto, in modo da non interrompere, nel periodo più intenso, il lavoro nei campi. Prese una forte posizione quando costruirono un palco per ballare, perché era una tentazione e un pericolo per le ragazze. Se non avevano il velo e le maniche fino al gomito, le rimproverava e non le faceva entrare in chiesa. La prima comunione la conferiva in seconda elementare alle sette e mezzo di mattino, poi in canonica offriva biscotti e latte con la cioccolata e per tutti era come fosse la più grande delle feste immaginabili.
La sera andava da qualche famiglia e restava a cena; da sotto la tonaca, lisa e scucita, tirava fuori una fiaschetta di vino e lo bevevano assieme. Poi recitavano il Santo Rosario. Nel mese di maggio, la sera arrivava fino a La Sega, a piedi e con la corona del Rosario in mano. Le famiglie che lo ospitavano sapevano di non preparagli patate, perché diceva che in Movada aveva già mangiato la sua parte; per il resto era di “bocca buona”, e mangiava spicchi d’aglio come fossero caramelle.
Finita la dottrina, ai bambini dava qualche caramella o dei confetti rimasti da qualche sposalizio. Ai chierichetti donava dei mucchietti di monetine, con le quali riuscivano appena a prendere una pallina di gelato. Inoltre ogni chierichetto, allora solo maschi, aveva il suo soprannome; che secondo la visione di don Basilio rifletteva il carattere del bambino, e che magari gli restava anche da grande. Nomignoli dialettali come: Scarselòn, Marescial, Scandelìn, Satutto, e tanti altri ormai scordati.
In un battesimo avvenuto il sei gennaio, i genitori di una piccola bambina avevano scelto di chiamarla Fiorella; lui la battezzò sì con il nome di Fiorella ma aggiunse quello di “Epifania”.
Pare che facesse anche qualche piccolo miracolo; il più frequente era quello di far ritornare al loro pollaio i galli, le galline e i dindiôts che, senza avvisare la padrona di casa, erano andati in pollai più lontani. Qualcuno ritornò addirittura già cotto e pronto da mangiare. In qualche campo di frumento c’erano più passeri che spighe; era sacrosanto che gli uccelli del cielo trovassero da nutrirsi, beccando qualche chicco, però posandosi spezzavano la spiga e il raccolto andava, come si dice, a farsi benedire. Ma, per l’appunto, una vera benedizione di don Basilio faceva spostare dal campo lo stormo di uccelli, i quali però, il più delle volte, andavano sul campo di un altro contadino. E via di nuovo con la benedizione. Così di rinvio in rinvio arrivava l’ora di mietere, e tutti facevano un buon raccolto. Molte famiglie allevavano i bachi da seta e il pericolo era che i bozzoli fossero attaccati da una miriade di formiche. Poche case erano immuni e non c’erano ancora “veleni” antiparassitari, oltre al verderame per la vigna. Ma arrivava don Basilio con l’aspersorio e il libricino nero e, dopo una preghiera e la benedizione, le formiche ritornavano nel posto da dove erano partite.
E chi lo sa quante altre storie e aneddoti saranno nel pozzo dell’oblio. E quanti altri fatti sarebbero potuti succedere, se il Suo “Padrone” non l’avesse chiamato anzitempo a fare il pievano di una parrocchia nei cieli celesti. Chissà che pieve gli sarà capitata, e se lassù funzioni come quaggiù?
Comunque sia lassù, don Basilio quaggiù, prima di ricoverarsi in ospedale e poi dipartire, ha saldato tutti i debiti della parrocchia e ha donato alla chiesa di Giai il copri battistero in rame, come si legge su una scritta incisa sullo stesso.

Nella valle si sente dire che la notte, dov’era il borgo Movada, quando il lago è così asciutto da far comparire il pianoro con i ruderi delle case, qualche pescatore di frodo in attesa che le trote cadano nella rete, abbia visto un prete intento a sistemare i muri crollati. Mentre dalle acque della Meduna esce una vecchia brutta e lercia, la maga, con una gerla piena di sassi che poi rovescia ai piedi dell’improvvisato muratore. E questo spiega perché, dopo oltre sessant’anni, i ruderi di quel borgo sommersi e corrosi dall’acqua stiano ancora in piedi. Neanche il terremoto del ’76 li ha abbattuti.

Don Basilio, l’umile prete partito da Movada, è ritornato a prendersi cura in perpetuo del suo borgo natio. E sicuramente, fra quei ruderi, avrà trovato il sonno dei giusti.

Da Giacomo ho ricevuto anche questa foto con la dicitura che vi copincollo

foto degli ultimi abitanti del "borgo Floùr", anch'esso "inghiottito" dal lago di Redona.

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