Foto di Stefano Spangaro - Cral Voltois

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Vita genuina di montagna ... Voltois UD

sabato 31 ottobre 2015

La storia di Costanza di Giacomo Miniutti - Meto








Sono una fans della Valcosa e dintorni (pagina facebook), sulla quale vedo spesso belle storie, notizie e foto interessanti. Sembra molto lontano ma la Val Tramontina in linea d'aria non è tanto lontana da noi, si trova appena di la dal Tagliamento subito dopo il Mont di Rest.
In questa pagina, vedo luoghi distrutti e ricostruiti dopo il terremoto come da noi e sento storie più o meno vere che mi hanno raccontato gli anziani di questi luoghi.
Ho chiesto il permesso di divulgare la storia di Costanza, perchè vivo nella convinzione che è bene tramandare ai pòsteri e ricordare ciò che è successo in un tempo molto lontano.
Giacomo Miniutti detto Meto, ha scritto anche i libri che vi ho riportato qui sotto.


LA STORIA DI COSTANZA
Giacomo Minutti (Meto)


Giacomo Miniutti (Meto)  

LA STORIA DI COSTANZA
Si narra, nelle valli pordenonesi, che quel fatale dì, quando la squilla batté l’Ave Maria, la vecchia Costanza non si alzò come sempre, ma rimase a poltrire. Si sentiva stanca. Le troppe stagioni pesavano come sassi nella gerla. Erano le cinque e trequarti. Tastò e sentì il prezioso taccuino.
Lei, se era vero che la morte si espiava vivendo, con la nera signora era a credito e poteva prendersi il diletto di gabbarla. E quando costei arrivò non poté usare l’affilata falce perché Costanza, su quel letto matrimoniale fatto di cartocci, già dormiva il sonno dei giusti.
La morte divenne ancora più nera: non le era mai capitato di arrivare in ritardo. Ma, vedendo quel sonno di pace, si chiese se il suo servizio fosse giusto. Si vestì di bianco e andò in canonica. Ordinò al pievano di non rintoccare da morto ma di suonare l’Alleluia di Pasqua.
E il campanaro rimase appeso alle corde fino ai dodici tocchi di mezzodì, senza badare alle mani infuocate e piene di vesciche.
E tutta la gente capì, e si fermò a pregare per Costanza che era volata in cielo.

Nacque sul finire del 1800, nella stalla di un paese abbarbicato in una valle delle Prealpi Carniche che, a estro dei narranti, prende il nome dal torrente che la attraversa. Pertanto, seppur vera sia la storia, non è così certo il luogo, e ciascuna vallata rivendica la paternità.
Ma non è poi così fiabesco che sia vissuta una Costanza in ognuna di quelle valli e, nell’udir la conta, capirete perché ogni paese ci tenesse a una donna di tal tempra.
Era una gelida notte di dicembre. I genitori erano poveri. Per scaldarsi passavano le giornate nella stalla, facendo utensili artigianali da vendere nelle case di pianura. La neve era alta. A stento si aprivano le porte e gli scuri delle case. Dal paese non arrivò la levatrice. Le comari del borgo aiutarono la gestante a partorire. Il marito fece un gran fuoco. Nel calderone della lisciva bollì la neve, per lavare gli stracci, le bende e il nascituro.
Si era vicini a Natale. E Costanza, come il Bambinello di Betlemme, fu posta nella greppia, tra il fieno profumato di quegli erti prati.
Dopo quasi duemila anni “gli ultimi” nascevano ancora!

Allora, gli sposi facevano molti figli. Madre natura, come fanno gli uccelli nel nido, lasciava in vita i più sani. Costanza non cadde dal nido e fu subito fasciata, così da crescere ritta come un fuso. In quei luoghi la miseria e la fame erano di casa. Chi si ammalava doveva raccomandare l’anima a qualche Santo; medici e medicinali costavano. Per comprarli, toccava scendere giù nei grossi paesi. Anche i genitori della piccola, quand’era ancora in fasce e lontana dalla parola “mamma”, passarono per detto giogo e raggiunsero il camposanto. Sua madre fece in tempo ad affidarla a una famiglia benestante, che aveva già quattro figli.
All’inizio del novecento, venne l’ora d’iniziare la scuola ma Costanza non poté; alla famiglia adottiva era utile una “serva” per i lavori domestici.
Così Costanza rimase analfabeta per tutta la vita.

Appena signorinella, con il sogno di una famiglia tutta sua, scoppiò la “grande guerra” che portò al fronte tutti gli uomini validi, compresi i giovani neanche ventenni. Molti non fecero ritorno, come il ragazzo che lei serbava nel segreto del cuore. Non bastava la guerra. Arrivò una malattia chiamata “la spagnola”. Provocò parecchie vittime e non si sapeva come affrontarla. Costanza era robusta e, forse, immune, così si prodigò nell’assistere chi si ammalava e debilitato giaceva a letto. Chi moriva era avvolto in un lenzuolo e accompagnato in cimitero da poca gente, e con il sacrestano che rintoccava una campanella.
La campanella fu nascosta alla requisizione degli Austro Ungarici, quando gettarono le campane dal campanile per fonderle e farne cannoni. Tutto il paese si riversò sul sagrato. Impotente e muto guardava il sacrilegio fatto alle loro squille, che erano state fuse sul posto assieme ai monili d’oro e d’argento, donati dalle famiglie perché il suono fosse più argentino.
Anche Costanza assistette allo scempio, e pianse.

In quelle zone arrivavano poche notizie sul conflitto: un presidio di soldati requisiva e vagliava anche la poca corrispondenza spedita dal fronte.
C’era qualche temeraria donna che con il carretto carico di utensili artigianali si spingeva fino alla bassa, per venderli o barattarli con mais, orzo e frumento. Impiegava anche un mese per il viaggio e, al ritorno, il paese le andava incontro per sapere le novità. Nell’ottobre del ’18, “radio carretto”, così era soprannominato, arrivò fino al Trevigiano e riferì di grandi bombardamenti lungo il Piave. Era la battaglia di Vittorio Veneto terminata all’alba del quattro novembre, con la resa dell’invasore. Anche il presidio del paese smobilitò. E la gente capì che tutto si era compiuto. Rimaneva l’angoscia per l’attesa dei propri cari.
Pure la “febbre spagnola” regredì e cessarono i decessi.
Il destino aveva cambiato la rotta!

Costanza, che non aveva perso la speranza, incontrò un giovanotto dello stesso borgo. Era un uomo forte e possedeva una casa con stalla e fienile. La corteggiò, e poi le “chiese la mano”. Lei accettò di sposarlo. Finalmente era in una casa tutta sua, anche se doveva accudire ai genitori del marito anziani e ammalati. Nel paese non c’era lavoro e il novello sposo dovette emigrare in Belgio. Costanza rimase con i suoceri attendendo il primo figlio.
Dopo un anno che non riceveva soldi e notizie dal marito, decise di andare a cercarlo. Sebbene analfabeta e parlando solo la lingua del luogo, riuscì ad arrivare in Belgio e a trovare il suo amato: era senza lavoro, senza soldi e in uno stato di disperazione. Se c’era un’emergenza, nel suo taccuino, trovava sempre i soldi per affrontarla. Presero il treno e tornarono a casa.
Come abbia fatto, anche per i narratori, rimane un mistero.

Si dice che una donna sorregga i tre angoli della casa ma Costanza sostenne anche il quarto pilastro. Notte e giorno cucì scarpettes di panno e velluto, di varie misure e ricamate con uno o tre fiorellini. Quando il carretto a due ruote era carico, partiva per la piana Friulana arrivando, spesso, nell’Emilia. Rientrava anche dopo due mesi, carica di farina, di pannocchie e di orzo; nonché, dentro il taccuino, i soldi per passare l’inverno. E così fece per tanti anni. Nacquero altri figli. Poi arrivò un’altra guerra, più lunga e distruttiva della precedente: la seconda guerra mondiale. La campagna di Grecia gli chiese il suo primo figlio appena ventenne. Da alpino della Julia, combatté su quel fronte per un anno e poi tornò sano e salvo. Il sereno durò poco: dopo quattro mesi fu richiamato alle armi con destinazione Russia, dalla quale non ritornò.
Ma lei non smise d’aspettarlo.

Un albergo del paese divenne sede degli ufficiali tedeschi, seguiti da una compagnia della Wehrmacht. Intendevano arruolare nel loro esercito tutti gli uomini validi al combattimento. Arrivarono anche nella casa di Costanza e fecero uscire in cortile il marito. Al suo netto rifiuto fu arrestato e, assieme ad altri uomini del paese, fu portato in prigione a Udine e poi inviato ai campi di lavoro in Germania.
Infine arrivò una “terza guerra”: quella di liberazione, con la lotta partigiana, che pretese da Costanza il suo secondogenito di appena diciassette anni. Fu un duro colpo per la donna che in quel figlio trovava una spalla per tirare avanti la baracca. I suoceri morirono, e rimase sola con due maschietti e una bambina. La sera, stanca di falciare il fieno, di zappare il campo, di procurarsi la legna per il focolare e di governare la vacca, dalla quale mungeva il latte per sfamare le tre bocche e, se ne avanzava, anche la sua, ricopriva le braci del larin con la cenere e pensava ai suoi uomini, strappati via da una guerra che non capiva. Si chiedeva perché aveva un marito prigioniero dei tedeschi, mentre un figlio in Russia combatteva da alleato, e l’altro figlio guerreggiava contro di loro; non sapeva da che parte stare.
Non poteva far altro che sperare e pregare il Signore che tornassero a casa.

Nell’attesa che tutto finisse, toccava andare avanti. Possedeva, fuori dal borgo, alcuni prati da fieno, un boschetto di noccioli selvatici e un campo per piantare patate e fagioli. Ogni dì, governata la stalla, si avviava verso quei luoghi, con gerla, falce, rastrello e coltellaccio.
Era sempre seguita dai tre figli, che protestavano perché erano stufi di mangiare latte con qualche fetta di polenta, delle patate lesse o mele e pere. Costanza si toglieva il boccone di bocca per darlo ai figli, ma di più non c’era! Lei si cibava di erbe selvatiche, di radici e bacche che trovava nel boschetto. E ciò, inspiegabilmente, le dava una grande resistenza.
Un pomeriggio rincasò con la gerla carica di legna di noglâr , la scaricò nel cortile e notò una medaglia con raffigurato San Antonio da Padova. La raccolse, la pulì con il fazzoletto da naso e la mise dentro il taccuino. L’indomani partirono a fare fieno e a rincalzare le patate; i bambini si lamentavano dalla fame e Costanza propose di cantare una canzone, così da non sentire lo stomaco brontolare. Cantava e pregava San Antonio che la aiutasse. A un certo punto della sterrata, il bambino più grande trovò un sacco bello rigonfio; svelto lo prese e vide che era pieno di pane fresco e profumato. Chiamò i fratelli e di corsa andarono a nasconderlo nel campo delle patate che erano già in fiore, e mangiarono più pagnotte che poterono; il resto l’avrebbero divorato i giorni successivi. La donna si accorse e si disperò pensando a come avrebbe fatto a risarcire il proprietario. Andò dal prete e gli spiegò il fatto, chiedendogli di dirlo alla messa, e garantendo il risarcimento a costo di vendere la vacca.
Nessuno rivendicò il pane, e il prete le disse di ringraziare la Provvidenza.
Un dì, facendo legna, per ogni grosso nocciolo secco che Costanza tagliava e che i bimbi accatastavano, cresceva un altro di pari grossezza, e bastava uno strattone per romperlo. Fecero una gran catasta di noccioli. Dovettero farsi prestare un carretto per trasportarli.
E così anche in seguito. Lo chiamarono il bosco magico.

Ma la guerra non aveva nulla di magico, e continuava. Un dì arrivò in paese un battaglione di tedeschi con i lanciafiamme. Pensavano che i partigiani si nascondessero dentro le case. Facevano uscire la gente e poi bruciavano le misere abitazioni. Arrivarono al borgo di Costanza. Quando furono davanti a casa sua, lei si bloccò davanti all’uscio impedendo al capitano di entrare. Gli disse che dentro c’erano solo tre bambini e che lei non si sarebbe mossa di un centimetro.
Il capitano si fece portare pennello e vernice e scrisse sul muro “bambini non bruciare”.

Le notizie parlavano di difficoltà per i tedeschi fino a dover ritirarsi. I partigiani si rinforzavano con il sentore dell’arrivo degli americani. Una sera nella casa di Costanza entrò un giovane tedesco, ferito e con le mani alzate. La donna lo curò, lo rifocillò e lo nascose nella stalla. Capiva del pericolo che correva ma, in quel soldato, vedeva i suoi due figli. Tre sere dopo arrivò il figlio partigiano, stava bene e voleva rassicurare la madre. Fu informato dell’ospite e, quando lo vide, non reagì, anzi, gli fece una piantina di un sicuro percorso per arrivare al confine. Si abbracciarono e partirono su strade diverse. Costanza ringraziò San Antonio.
Ritornò il marito. Era debilitato e non si riprese più; l’osteria era troppo vicina a casa, e andò là, dove tutti dormono.

La guerra finì.
Il figlio partigiano emigrò in Francia e formò famiglia. Gli altri si sistemarono nei dintorni.
Costanza rimase nella sua casa. Curò prati e stalla, e cucì scarpettes da vetrina.
Un giorno arrivò un’auto tedesca: era il soldato che voleva ringraziarla per l’aiuto ricevuto.
Nel taccuino, assieme a San Antonio, aveva sempre cartamoneta per le necessità di figli e nipoti; ma quel fatale dì, sul comodino, lo trovò vuoto.
Capì e si addormentò beata.
Quella medaglia, qualche altro bisognoso l’avrebbe trovata.

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Questa è una storia vera di una donna nata e vissuta in una borgata di Claut. Il racconto breve entro le 12.000 battute (tre-quattro cartelle) forse diventerà un libro.



Foto del web di  scarpes ... scarpetti di tela fatti a mano
Ho fatto in tempo a portarne e ad aiutare mia suocera a punzonare le suole fatte di tanti stracci cuciti uno dopo l'altro.
Queste erano gli scarpetti che faceva Costanza.