Bene, è da tanto che mi dicono che l’annite influenza ricordi
lontani ma che sono sempre vicini e vengono a galla quando meno te lo aspetti.
Ho cambiato casa e regione alcune volte, ho imparato usanze e
costumi di altre genti e ho potuto conoscere la tradizione di S. Lucia.
A Trento la tradizione di Santa Lucia è molto sentita e il
primo anno una nuova amica mi aveva regalato un paio di piccoli zoccoli, perché
sapeva che avevo iniziato una collezione di questi zoccoletti.
13 DICEMBRE S.LUCIA
Tutto è partito domenica scorsa, la mia amica Nazaria mi ha
regalato un prezioso libretto di mestieri in via di estinzione, scritto dal suo
papà:
“MALVIS E STIELIS - Giovanni Zatti ”.
Caso vuole che appena ho aperto il libretto a caso, si
è aperta la pagina
IL DÀLBIDAR, colui che costruiva gli zoccoli:
Foto ripresa dal libro - fatta io
Il Dàlbidar è così chiamato l’artigiano costruttore di “dàlbidis”
o “scroi”, specie di calzature in un unico pezzo di legno, privo di incollature
di sorta.
L’addetto sceglieva personalmente nel bosco, le piante
idonee, con il giusto diametro, adatto per sagomare il pezzo nelle dimensioni
volute, ed evitare la scheggiatura e sgrezzatura.
Legname usato
Le essenze latifoglie preferite erano:
acero montano àjer o àer acer
pseudoplatanus
acero riccio
clem acer platanoides
ontano
àl alnus
glutinosa
pioppo
pòul populus
alba
betulla
bedòl betula alba
noce nujâr o cocolâr juglans regia
Di quest’ultimo si usava solo l’alburno più tenero e leggero
del restante legno “blancùm di nujâr”.
La parte ottima, la più ricercata, era la più bassa del
tronco, la più vicina all’apparato radicale, che non presentava possibili
spacchi né incrinature radiali del legno.
Dall’acero montano e dall’acero riccio si ricavavano, grazie
alla bianchezza del legno “lis dàlbidis di fiesta” e “li sdàlbidis di cjàsa”.
Le altre essenze più tenere, venivano impiegate per calzature
da usarsi nei campi e nei lavori di stalla.
Quelle fin qui descritte venivano chiamate “dàlbidis di
planèla”.
Sui pendii erbosi e nei lavori boschivi si calzavano “lis dàlbidis di glacìns”.
Erano più robuste delle altre, sempre di acero, e nella parte
di contatto col terreno, avevano delle tacche, una in corrispondenza della
regione avanzata tarsiale, l’altra al calcagno.
Evidenziavano un ferro a tre punte applicate alla tacca
anteriore e uno a due punte in quella posteriore. Questi ferri erano chiamati “glacìns”.
Talora veniva installato un chiodo, in corrispondenza dell’arcata
del piede “sfals dal pît” che serviva a tenere un’agevole equilibrio sulle
piante e sui tronchi al momento della sezionatura.
Nelle “dàlbidis di planèla”, ad evitare il logorio delle
tacche, veniva applicato un pezzo di suola di vecchi “scarpets” e negli ultimi
tempi sottili suole di gomma zigrinata.
Con questo sistema era possibile evitare anche lo slittamento
nei transiti sul ciottolame “codolât” o su tratti gelati.
La tenuta del piede era assicurata da una striscia di cuoio “il
traìn” che, inchiodata trasversalmente da una sponda all’all’altra della “dàlbida”
tratteneva il piede senza che ci fosse il pericolo di sfilamento della
calzatura.
Il “traìn" era normalmente di pelle di vitello che, data la
morbidezza, si adattava maggiormente di altri cuoi alla flessione del collo del
piede. (seguono poi tutte le fasi di lavorazione, con attrezzi vari che qui non vi iporto).
Testo preso integralmente dal libro del Signor
Giovanni Zatti,
regalatomi dalla figlia Naszaria
foto presa dal web
foto presa dal web
foto presa dal web
Grazie a questo, vi riporto un ricordo della mia infanzia,
quando ancora gli zoccoli erano in auge.
Sin qui abbiamo parlato di una realtà montana, ma io che sono
nata in pianura in mezzo alle risaie, ricordo che tanti anni fa in campagna
erano soliti calzare “i socal” (in dialetto lomellino).
Non c’era nessuna differenza, cambia il nome dialettale ma la
modalità di lavorazione era uguale.
Noi bambini cordialmente li odiavamo perché se non si
prestava attenzione, si rischiava di procurarsi qualche bella botta ai malleoli
e quindi viaggiavamo allegramente a piedi scalzi.
Quando gli adulti rincasavano dal lavoro, si udivano i loro
passi provocati dallo scricchiolio degli zoccoli sulla strada sterrata.
Tanti anni fa l’inverno era duro, le nevicate copiose ma i “socal”
riuscivano ad isolare i piedi dall’umidità. Riparando poi i piedi con calzini
pesanti di lana lavorati ai ferri, i piedi si riscaldavano maggiormente.
In quelle gelide sere invernali, noi piccoli eravamo a letto
molto presto, ma altrettanto presto ci alzavamo al mattino per correre svelti
vicino al fuoco del camino che alle 5 già scoppiettava.
Ricordo la frugale colazione che facevano il nonno e gli zii …
polenta e latte fresco della mungitura della sera prima.
Gli zoccoli del nonno erano insieme a quelli degli zii
accanto al camino a riscaldarsi.
Poi c’era un rituale che mi è rimasto sempre impresso.
Nonna seduta su uno sgabellino che metteva una pezza
appoggiata a terra con sopra del fieno secco, il nonno, che già indossava le
calze pesanti, appoggiava un piede, nonna glie lo avvolgeva e poi lo
aiutava ad infilarlo nello zoccolo e così anche per l’altro.
Poi nonna si alzava, si salutavano e il nonno partiva per i
lavori dei campi.
L'amore e l'attenzione che c'erano in questi gesti erano straordinari e non li ho mai dimenticati.
Se vi capita, leggete anche il libro L’albero degli Zoccoli
di Ermanno Olmi, da cui è stato tratto un bellissimo film che ha avuto tanto
successo decenni fa.
Fotografie mie
Vi auguro una buona lettura, sicura che molti di voi
ricorderanno quei tempi.