Per gentile concessione di Giacomo Miniutti del gruppo La "Valcosa" e dintorni di FB, vi aggiorno su questa bellissima storia legata al Lago di Redona e il prete venuto da Movada ... paese sommerso dall'acqua per formare un lago artificiale.
LAGO di REDONA
parte seconda
Giacomo Miniutti ha condiviso il suo post.
Giacomo
Miniutti ha condiviso il suo post.
foto
di Giacomo Miniutti.
Il
PRETE VENUTO DA MOVADA
Tratto
da "Guardaci dal Peggio" - Edizioni Biblioteca dell'Immagine.
Don
Basilio Miniutti nato in Movada
Il
due gennaio 1898
Forse
il lettore ricorderà la conta sulla creazione del mondo, dove l’agna Liti
sosteneva che il buon Dio, avendo timore di fare una cosa storta, creò per
prima la Val Tramontina; poi giacché gli apparve “cosa più che buona” completò
l’opera come sta scritto nella Genesi. Fu una valle stupenda, di grandezza
contenuta ma senza l’attuale lago. Circondata da montagne boschive e poco
elevate. Con torrenti e ruscelli che finivano nella Meduna, ricca di trote,
gamberi e morsôns. C’erano prati da fieno, orti e campi da coltivare. Né
mancavano sassi, sabbia, acqua e legname per fabbricare le case.
Gli
uomini, ma anche le donne, non risparmiarono fatica e sudore. Fecero le fornaci
da calce, che impastata con sabbia e acqua diventava malta e teneva legati i
sassi delle murature.
Oltrepassata
la forra del ponte Racli, sulla strada vecchia, fu edificata Redona: un vero
paesello con chiesa, scuola e osteria. Univa i due versanti un ponticello ad
arco e in pietra, tanto sottile da paragonarlo alla pertica, il racli, che nel
campo sosteneva i fagioli. Seguitando poi, controcorrente come le trote, sulla
piana dove scorre la Meduna, si arriva allo spazioso pianoro dove fu costruito
il borgo di Movada. Più avanti c’era il mulino del Flôur e a un tiro di
schioppo l’omonimo borgo. Più in alto dell’alveo, quasi in previsione del lago,
costruirono casa Miar e il Pecòl, e sul versante opposto Prapitòl, Faidona, la
borgata di Muinta e casa Versivès. Proseguendo sulla manca verso il primo
Tramonti, dopo i prati del Pirôl, in un avallamento a ridosso della montagna,
costruirono le case di Cornèra e Quâl di Pêr. Gli abitati della Silisia sono
tralasciati, perché marginali alla nostra storia.
Superato
lo stretto giro della Clevata, il greto della Meduna si allarga di nuovo. Però
diventa ghiaioso, pieno di massi e arbusti, da non essere più coltivabile e
ancor meno abitabile. Così i tre Tramonti furono costruiti su altopiani
diversi: ampio e agevole quello di Sotto, più contenuto e a ridosso della
montagna quello di Sopra ma ricompensato da un bel piano, posto a dritta del
viandante diretto al monte Rest, infine quello di Mezzo, stretto e ripido, più
disagiato e senza conguagli.
Ritornando
a borgo Movada, sempre dalla conta, si apprende che l’Onnipotente in quel luogo
piantò il giardino dell’Eden, e poi creò Adamo ed Eva. L’agna Liti rimarca che
in quelle case nacque il suo Filissi. Però, benché donna di profonda fede, non
evidenzia, sicuramente per riserbo e rispetto, che fra quelle mura nacque anche
Don Basilio Miniutti, cugino del nonno Felice Miniutti.
Di
sicuro il Creatore, già in quel tempo, aveva prestabilito che, un dì, un suo
umile e povero Apostolo trovasse la vocazione al cammino sacerdotale partendo
proprio da quell’incantevole borgo.
Basilio
venne al mondo il due gennaio 1898. Aveva un fratello di nome Giuseppe. Il
padre, Felice Miniutti, faceva il boscaiolo nelle foreste Germaniche. La madre,
Angela Da Prat, accudiva alla famiglia, coltivava l’orto e il campo, governava la
stalla, faceva fieno nei prati e legna nel bosco. Il piccolo Basilio passò la
sua infanzia e la fanciullezza in quei luoghi carichi di pace e spiritualità.
Aiutava la mamma nei prati e nella stalla. Andava a scuola e alla Messa a
Redona. I vestiti erano pochi e il cibo ancora meno. Angela aveva alcune
pecore. Filava la lana con la gorletta e il fûs e sferruzzava maglie grezze che
pungevano la pelle. Produceva in casa un poco di formaggio e ricotta, e il
burro lo impastava nella pegna. Faceva fermentare il siero che diventava simile
all’aceto, il sèç, per condire il radicchio. Poi tante patate, fagioli e
polenta, delle uova e qualche gallina, ma tutto il più razionato possibile,
consentivano di sopravvivere al passare degli anni.
Papà
Felice era un bravo pescatore e d’inverno, quando rincasava, nella Meduna
pescava il ben di Dio, e tutto il borgo mangiava pesce. Gli uomini emigranti,
alla fine dell’annata, non ritornavano con grossi guadagni; bastavano per
pagare il debito della bottega e per il costo del biglietto di una nuova
partenza, ma almeno in quei mesi che non erano in casa, c’era una bocca in
meno, e non certo piccola, da sfamare.
Così
trascorrevano gli anni; Basilio cresceva e anche la vocazione si faceva
sentire. Spesso la mamma lo trovava appartato lungo l’argine della Meduna,
inginocchiato e in preghiera, davanti a altarini di sassi fatti con le sue
mani. E nel borgo già prevedevano, orgogliosi, il loro compaesano con la tonaca
lunga, nera e con trentatré bottoni. Arrivò la vera “Chiamata” con l’entrata
nel Seminario di Portogruaro. In seguito giunse la cartolina di precetto
militare, con un anno di battaglia sul Fiume Sacro nella prima guerra mondiale.
Appena ventenne fu sergente e poi capo ufficio al comando del 47° reggimento di
fanteria. In quel tempo molti di quei ragazzi erano analfabeti e andavano in
trincea, con il pericolo di restarci per sempre.
Chi
aveva un minimo di studio svolgeva servizio nella sanità o nella sussistenza,
con più probabilità di tornare a casa sano e salvo. Suo cugino Felice nato nel
1885, aveva tredici anni di più, fu richiamato alle armi e combatté sullo
Stelvio; raccontava di essersi salvato grazie alla tanta esperienza.
Se
avanti la guerra c’era miseria, alla fine, nel borgo, ne avevano fin sopra i
capelli. Con la cacciata dello straniero si conquistò la libertà ma non si
riuscì a mandare via, come si diceva, “la pellagra”. Basilio ritornò in
Seminario. Gli fu sospeso il pagamento della retta, vista la povertà della
famiglia d’origine e, forse, anche in virtù della sua profonda fede e
vocazione. Era il dodici di luglio, nell’anno del Signore del 1925, quando il
Vescovo della Diocesi di Concordia, Monsignore Paulini Luigi, lo ordinò
sacerdote presso la chiesa della Beata Vergine delle Grazie a Pordenone.
Quel
giorno tutto il borgo Movada, fuorché una donna, scese in città; era una sorta
di riscatto alla malasorte. Quel prete dava un significato ai sogni e alle
speranze di ciascuno di loro e li ricompensava. Ogni famiglia, durante gli anni
del Seminario, aveva aiutato la famiglia di Basilio rendendogli meno grama la
via per diventare ministro di Dio. Essere un reverendo, in quei tempi, era un
fatto straordinario, e ancora di più se si proveniva da luoghi e famiglie
dimenticate dal resto del mondo.
Rientrati
a Movada, quella sera, governata la stalla e mangiato un boccone, tutti
andarono a dormire presto perché affaticati e non usi a viaggi e cerimonie. Ma
nessuno riuscì a chiudere occhio. Questo secondo i ricordi di Elda Miniutti
detta la contessa; un soprannome datole proprio da don Basilio. Sarà poi una
singolarità, per tutta la sua vita sacerdotale, quella di appioppare nomignoli.
La
contessa raccontava che quella notte la luna era talmente bassa sopra il borgo
da poter prenderla con le mani. Era piena come una palla infuocata e illuminava
più del giorno. Nelle case si udivano rumori insoliti, si sentivano battere
porte e scuri, e nei cortili pareva che trascinassero delle catene. Nelle
stalle, le vacche erano in piedi adombrate come cavalli infuriati e muggivano
da affamate. Sui fienili, gli uccelli del malaugurio erano un interrotto canto
di disgrazie. I comignoli delle case fumavano come in pieno inverno, senza che
i ciocchi sul larin ardessero. Sotto la montagna, la Meduna rumoreggiava come
quando c’era la grande piena. Barba Pauli, più temerario degli altri, andò a
vedere. Riferì che l’acqua, anche se erano giorni che non pioveva, era alta e
correva più del treno che lo aveva portato emigrante in Francia; mentre le
trote andavano al contrario, seguendo la corrente e i gamberi camminavano in
avanti. Nessuno si accorse quando la luna cedette il posto al sole. Venne l’ora
di governare la stalla e tutti si alzarono, ma le vacche non si lasciarono
mungere.
Nel
borgo abitava una signora venuta da Campone, detta la cjampona, ma sottovoce
era chiamata la maga. Non andava d’accordo con nessuno e qualche diavoleria
l’aveva più di qualche volta combinata. Come quella di fare gonfiare la pancia
alle vacche o di prosciugare la mungitura. Oppure far trovare dentro i cuscini
e tra le lenzuola, di qualche famiglia, dei chicchi di granoturco o ciuffi di
capelli aggomitolati. Poi qualche bambino si ammalava senza motivi e qualcun
altro si rifiutava di mangiare. I malcapitati andavano in paese a chiamare il
prete, che solerte arrivava per la benedizione e i dovuti scongiuri, e tutto si
normalizzava. La cjampona era piena di miseria, più di tutti gli altri. Quando
non aveva proprio nulla da mangiare, si sedeva sulla sponda della Meduna. Per
ore fissava l’acqua corrente, finché riusciva a far saltare un paio di belle
trote dall’acqua fino sul prato. Cadendo rimanevano stordite, ed era facile
prenderle e poi cucinarle su quattro tizzoni ardenti.
Ma
nonostante questi fatti, pensare che tutto quel quarantotto fosse opera sua
forse era un azzardo. Così, sempre barba Pauli, che era il più anziano del
borgo, andò a casa a chiederle spiegazioni.
La
maga gli riferì che quel dì, rimasta sola nel borgo, ricevette la visita del
Diavolo. Era furibondo perché era stato consacrato un altro ministro di Dio.
Quel nuovo prete era un pericolo e un ostacolo in più per i sui piani
diabolici. E siccome era di quel borgo ed era stato aiutato dai suoi
compaesani, costoro si meritavano la giusta punizione. Le ordinò di dargli una
mano: doveva stare tutta la notte in piedi al centro del cortile, rivolta verso
la casa di Basilio, come un pennone ricevitore di segnali, e al resto avrebbe
pensato Lui. Le anticipò che poi tutto sarebbe terminato con quella terribile
nottata. E così avvenne. Dopo quell’evento anche la maga si acquietò. Si dice
che un giorno, mentre cercava di far saltare fuori dall’acqua le trote per
cenare, videro lei fare un salto nella Meduna.
Don
Basilio iniziò il suo Ministero facendo il Cappellano a San Vito al
Tagliamento, e colà rimase fino al 1930. Ogni anno tra maggio e giugno
ritornava al borgo per un breve periodo di riposo. Passeggiava nella piana o
lungo la sponda della Meduna leggendo il breviario. Poi andava fino a Tramonti
di Sotto a pregare sulla tomba dei suoi genitori. La sera, dopo la frugale
cena, la contessa sul davanzale esterno della cucina preparava un altarino, con
la Madonnina di Lourdes dentro la grotta. E tutti assieme recitavano il Santo
Rosario. - Quell’immagine sacra è tutt’oggi conservata dalla figlia della
contessa, Ivana Crovatto -Miniutti, che è anche la fonte di questi particolari
avvenimenti.-
Gli
fu raccontata anche la sconvolgente nottata che il borgo passò il giorno della
sua Ordinazione. Li consolò dicendogli che lo sapeva, perché anche lui quella
notte subì le tentazioni. Ma uscì libero. Spiegò che il Diavolo fin dalla
Genesi aveva fatto malanni, e anche grossi. Così che da allora l’umanità
seguitava a pagare le conseguenze; come diceva anche l’antica conta, alla quale
lui credeva. E il riparo, da questo pericolo, stava nella fede, nella preghiera
e in una vita timorata di Dio .
Dalla
piana ritornò ai monti, e fu parroco di Claut per oltre sei anni, fino al 1936.
Il paese e i luoghi erano simili a quelli natii, forse più disagiati da
raggiungere e le persone un poco diverse nella parlata, e più taciturne e
riservate nei rapporti. Anche da Claut, quando poteva, ritornava al suo borgo,
alle volte anche a piedi attraverso la forcella clautana, che permetteva di
raggiungere la Selva, poi Chievolis, Muinta e giù a Movada, attraversando la
Meduna su un ponticello di legno.
E
di nuovo verso il piano. Per quasi dieci anni fu arciprete e anche Vicario
Foraneo a Travesio, fino al 1946. Qui trascorse i terribili anni della seconda
guerra, e anche la parte finale della discordia: la cosiddetta lotta di
“liberazione e di resistenza”. Furono anni duri, di fatiche, paure e miseria.
Uomo di Dio e timorato di Dio, qual era, seppe destreggiarsi; aveva già
l’esperienza dell’altra guerra, ma questa era diversa, disorientava, non si
capiva con chiarezza chi fosse il nemico da cacciare. Chi era il buono e chi il
cattivo. Aiutò senza esitazioni indistintamente tutti, riuscendo a mediare
situazioni intricate e pericolose. E con altrettanto vigore denunciò per
iscritto, a chi di dovere, i comportamenti incivili e disumani che purtroppo
accaddero, e dei quali fu testimone. Fu benvoluto dalla popolazione e stimato
dai preti della forania, tanto che il Podestà, in sentore di un suo
trasferimento, scrisse una lettera al Vescovo, Monsignore Vittorio D’Alessi,
per una proroga e una delegazione di donne andò in Curia a spiegare le
motivazioni, così da ottenere un lungo rinvio al trasferimento.
Durante
quegli anni turbolenti poté poche volte e di fretta ritornare al borgo, e ciò
lo sconfortava.
Poi
ancora con la tenda in spalle, verso la bassa pianura, per accamparsi a Giai di
Gruaro. Era l’otto febbraio del 1946. Toglierà la tenda, per l’ultima volta, il
primo maggio del 1962, il giorno che ritornò alla casa del Padre. Fu sepolto, e
tuttora riposa, nel camposanto di Tramonti di Sotto.
In
quegli anni a Ponte Racli iniziarono i lavori per la costruzione della diga. La
società costruttrice, la S.A.D.E., liquidò con “quattro” lire terreni e
fabbricati, ma se anche fossero state “otto” le lire, non avrebbero comunque
ricompensato il dolore provato da quella gente nell’essere sradicata dai suoli
dov’erano venuti al mondo. Nel 1950 la corsa della Meduna cozzò contro la
montagna di cemento; Redona, Movada e il Flôur con il suo mulino, lentamente
furono coperti dall’acqua. Le famiglie di Cornèra e Quâl di Pêr ebbero la già
instabile passerella distrutta, e rimasero isolate. Con una barca, Gjelmin, che
aveva fatto il marinaio, traghettava quei disgraziati, come Caronte, da una
sponda all’altra. Poi l’impresa edile di Durat Osvaldo, detto Lalo, di Tramonti
di Sopra, prese l’appalto per la costruzione di una passerella con funi
d’acciaio, pilastri di sostegno in calcestruzzo e camminamento in tavolato.
Ma
in breve anche quegli ultimi abitanti se ne andarono; oltrepassarono il Ponte
Racli per raggiungere lidi più comodi e redditizi, lasciando però una piccola
parte di loro in quei territori.
Anche
per don Basilio erano intensi e radicati i sentimenti d’appartenenza al luogo
natale, così che donò alla Pieve di Santa Maria Maggiore, di Tramonti di Sotto,
il nuovo pavimento, come rimarca la scritta fra il primo e il secondo
contrafforte della chiesa. “A suffragio dei suoi antenati, a perenne memoria
della borgata Movada sommersa dal bacino idraulico di Ponte Racli, il Sacerdote
Basilio Miniutti fu Felice, nell’anno Santo 1950 donava questo pavimento,
all’antica chiesa che lo accolse bambino. Segnandogli la via al sacerdozio di
Cristo. Pregate per l’anima sua”.
Non
potendo più recarsi nel suo borgo, don Basilio in estate veniva una settimana
in Moschiasinis a fare visita a suo cugino Felice. Erano gli anni ’50-60 ed ho
ancora vivi quei momenti. Alcuni giorni prima, arrivava la cartolina che
annunciava l’arrivo. Era un onore avere ospite un prete e motivo d’orgoglio
verso le altre famiglie. La mamma e l’agna Liti cercavano di riassettare e
pulire tutta la casa, compresa la stalla, e svuotavano pure il condòt, disinfettandolo
con un’imbiancata di calce spenta. Andavamo ad attenderlo alla fermata della
corriera di Pupin, nella curva sotto il Pecòl. Appena sceso guardava verso
Movada. Faceva il segno della croce e benediva il borgo sommerso con
l’aspersorio. Era poco più alto del nonno, robusto, dalla faccia severa, con i
capelli corti, la chierica e un po’ stempiato. Con la veste talare nera come il
carbone e lunga da toccare quasi a terra. Il cappello in testa, rotondo ad ali
larghe e nero. Una piccola valigia di biancheria e una borsa con libri di
chiesa, la stola e l’aspersorio, erano il suo bagaglio. Ci portava candele
benedette, santini di Santi e Madonne e dei cartocci con caramelle di
liquirizia e di zucchero d’orzo. La povertà l’aveva indosso.
Ricordano
che ad una coppia di sposi di Giai, emigranti in Svizzera, che gli annunciavano
il loro matrimonio, così fra l’altro gli rispose: .
Il
papà era all’estero e così io e la mamma gli lasciavamo la nostra stanza da
letto e andavamo in quella a fianco. Durante il giorno passava ore, seduto
sulla panca in cima la riva, a guardare il lago e a leggere il breviario. Con
il nonno andava sul Pecòl, io gli correvo dietro ed ero contento perché mi
chiamava “l’Apostolo” Giacomo. Se il lago era basso, giungeva fino ai ruderi di
Movada.
Pregava
su qui muri di sasso abbandonati, perché erano stati sacrificati al progresso e
al profitto, che da allora, purtroppo, non hanno più fermato la loro corsa. Ma
tutt’oggi qui muri di pietra sono ancora in piedi, a monito che l’uomo non è il
padrone del creato, ma è solo una sorta di giardiniere, posto sulla terra per
lavorarla, curarla e mantenerla la più intatta possibile.
Andavano
poi all’osteria di Febo a bersi il mezzo litro di vino rosso. Come il cugino,
non disdegnava bacco, e lo chiamava “il telefono”. Altra venialità era il
tabacco da naso, “il Giustina”, nella scatoletta rotonda, e poi seguivano le
grandi soffiate di naso nei fozzolettoni a quadri rossi.
A
giorni alterni con la corriera andava a Tramonti di Sotto a pregare in chiesa e
nel cimitero. Con sé aveva sempre un libricino con la copertina nera, che
leggeva o teneva in tasca assieme all’aspersorio. Un giorno stava arrivando un
brutto temporale, con nuvoloni scuri, vento forte, tuoni, lampi e una sicura
grandinata. Eravamo già disperati per i fagioli e le patate che sarebbero stati
flagellati, e per qualche fulmine sulla casa o nella stalla. Ma arrivò Don
Basilio da Tramonti e corse difilato in camera al secondo piano. Noi restiamo
nel cortile a ridosso della stalla sotto la linda. Lo vediamo sporgersi dalla
finestra aperta, con la stola indosso, l’aspersorio e il librettino nero nelle
mani. Sul davanzale, nonostante il vento, stanno accese due candele benedette.
Lo sentiamo pregare in latino e benedire quel cielo nero e minaccioso. A ogni
benedizione rispondiamo con il segno della croce, il nonno ha il cappello in
mano e lo tiene sul petto in segno di pentimento. Dopo un quarto d’ora arriva
una pioggerellina, ideale per annaffiare il radicchio nell’orto, il vento cessa
e i nuvoloni scompaiono. Riappare il sole e, proprio sopra Movada, si forma uno
splendido arcobaleno.
Quella
sera, mentre si cenava polenta, radicchio e frittata con il formaggio, ci disse
che proprio quel giorno aveva riempito l’aspersorio di acqua benedetta,
nell’acquasantiera della chiesa di Tramonti di Sotto. E in grazie a quell’acquasanta
aveva cacciato il temporale.
Un’estate
quando ripartì volle portare con sé il cugino. Andammo ad accompagnarli alla
fermata della corriera e mogi tornammo a casa. Il nonno restò circa una
settimana a Giai di Gruaro. Senza di lui in quei giorni ci sentimmo smarriti.
Come se mancasse il faro ai marinai durante la tempesta.
Ritornò
con un sacco di venti chili di farina bianca per polenta e una damigianetta di
vino rosso, oltre alle candele benedette. Ci raccontò che nel paese erano in
prevalenza contadini, ma che il lavoro era meno faticoso e più redditizio che
in montagna. Il patrono della chiesa era san Giovanni Battista; i parrocchiani
erano devoti e le decime erano sempre puntuali e abbondanti. Ma il cugino era
caritatevole. E ciò che prendeva con una mano, senza darlo a vedere, lo ridava
con l’atra alle famiglie più bisognose. Era coerente con le Scritture. Mentre
in questi tempi questa pratica è scomparsa.
<È
più facile e visibile fare dibattiti e incontri sul nulla, che spezzare un
tozzo di pane per l’altro>.
Don
Basilio ritornò altre estati da noi e nell’ultima, quando lo accompagnammo alla
corriera, il nonno, scherzosamente, gli chiese di fargli il funerale quando
sarebbe giunta la signora cûl falcèt. Suo cugino così gli rispose: “Filissi,
verrai prima tu al mio funerale; tu vivrai come Matusalemme”. Salì in corriera
e partì. E il presagio si avverrò. Forse sapeva già o intuiva che “il brutto
male”, così
era
chiamato a qui tempi, l’avrebbe falciato avanti l’ora.
Don
Basilio fu parroco di Giai per sedici anni e tre mesi. Il prossimo anno
ricorrerà il cinquantesimo della sua morte. Ho parlato con persone che l’hanno
conosciuto e che tuttora vivono in paese.
È
un quadro stupendo, con una graziosa cornice: di un prete-uomo, povero, buono,
umile e schietto, ma anche deciso e severo. Attento dei bisognosi ma esigente
con i più fortunati. Devoto alla madre Chiesa, non sopportava indecenze e malcostumi.
La cornice racconta di una terra feconda, anche se pretenziosa di fatiche e
sudori; di un territorio tranquillo e armonioso con gente attaccata alla
famiglia, laboriosa, onesta, di cuore e praticante dei Comandamenti.
Rammentano
che stesse poco in canonica. Terminate Messa e dottrina, girava il paese a
piedi o in bicicletta, veloce come un treno e anche senza le mani sul manubrio.
Faceva visita alle famiglie, anche a quelle isolate e lontane. Se il
capofamiglia era ricoverato in ospedale, spaccava lui la legna per il fuoco.
Spostò la festa del patrono dal 24 giugno al 29 di agosto, in modo da non
interrompere, nel periodo più intenso, il lavoro nei campi. Prese una forte
posizione quando costruirono un palco per ballare, perché era una tentazione e
un pericolo per le ragazze. Se non avevano il velo e le maniche fino al gomito,
le rimproverava e non le faceva entrare in chiesa. La prima comunione la
conferiva in seconda elementare alle sette e mezzo di mattino, poi in canonica
offriva biscotti e latte con la cioccolata e per tutti era come fosse la più
grande delle feste immaginabili.
La
sera andava da qualche famiglia e restava a cena; da sotto la tonaca, lisa e
scucita, tirava fuori una fiaschetta di vino e lo bevevano assieme. Poi
recitavano il Santo Rosario. Nel mese di maggio, la sera arrivava fino a La
Sega, a piedi e con la corona del Rosario in mano. Le famiglie che lo
ospitavano sapevano di non preparagli patate, perché diceva che in Movada aveva
già mangiato la sua parte; per il resto era di “bocca buona”, e mangiava
spicchi d’aglio come fossero caramelle.
Finita
la dottrina, ai bambini dava qualche caramella o dei confetti rimasti da
qualche sposalizio. Ai chierichetti donava dei mucchietti di monetine, con le
quali riuscivano appena a prendere una pallina di gelato. Inoltre ogni
chierichetto, allora solo maschi, aveva il suo soprannome; che secondo la
visione di don Basilio rifletteva il carattere del bambino, e che magari gli
restava anche da grande. Nomignoli dialettali come: Scarselòn, Marescial,
Scandelìn, Satutto, e tanti altri ormai scordati.
In
un battesimo avvenuto il sei gennaio, i genitori di una piccola bambina avevano
scelto di chiamarla Fiorella; lui la battezzò sì con il nome di Fiorella ma
aggiunse quello di “Epifania”.
Pare
che facesse anche qualche piccolo miracolo; il più frequente era quello di far
ritornare al loro pollaio i galli, le galline e i dindiôts che, senza avvisare
la padrona di casa, erano andati in pollai più lontani. Qualcuno ritornò
addirittura già cotto e pronto da mangiare. In qualche campo di frumento
c’erano più passeri che spighe; era sacrosanto che gli uccelli del cielo
trovassero da nutrirsi, beccando qualche chicco, però posandosi spezzavano la
spiga e il raccolto andava, come si dice, a farsi benedire. Ma, per l’appunto,
una vera benedizione di don Basilio faceva spostare dal campo lo stormo di
uccelli, i quali però, il più delle volte, andavano sul campo di un altro
contadino. E via di nuovo con la benedizione. Così di rinvio in rinvio arrivava
l’ora di mietere, e tutti facevano un buon raccolto. Molte famiglie allevavano
i bachi da seta e il pericolo era che i bozzoli fossero attaccati da una
miriade di formiche. Poche case erano immuni e non c’erano ancora “veleni”
antiparassitari, oltre al verderame per la vigna. Ma arrivava don Basilio con
l’aspersorio e il libricino nero e, dopo una preghiera e la benedizione, le
formiche ritornavano nel posto da dove erano partite.
E
chi lo sa quante altre storie e aneddoti saranno nel pozzo dell’oblio. E quanti
altri fatti sarebbero potuti succedere, se il Suo “Padrone” non l’avesse
chiamato anzitempo a fare il pievano di una parrocchia nei cieli celesti.
Chissà che pieve gli sarà capitata, e se lassù funzioni come quaggiù?
Comunque
sia lassù, don Basilio quaggiù, prima di ricoverarsi in ospedale e poi
dipartire, ha saldato tutti i debiti della parrocchia e ha donato alla chiesa
di Giai il copri battistero in rame, come si legge su una scritta incisa sullo
stesso.
Nella
valle si sente dire che la notte, dov’era il borgo Movada, quando il lago è
così asciutto da far comparire il pianoro con i ruderi delle case, qualche
pescatore di frodo in attesa che le trote cadano nella rete, abbia visto un
prete intento a sistemare i muri crollati. Mentre dalle acque della Meduna esce
una vecchia brutta e lercia, la maga, con una gerla piena di sassi che poi
rovescia ai piedi dell’improvvisato muratore. E questo spiega perché, dopo
oltre sessant’anni, i ruderi di quel borgo sommersi e corrosi dall’acqua stiano
ancora in piedi. Neanche il terremoto del ’76 li ha abbattuti.
Don
Basilio, l’umile prete partito da Movada, è ritornato a prendersi cura in
perpetuo del suo borgo natio. E sicuramente, fra quei ruderi, avrà trovato il
sonno dei giusti.
Da Giacomo ho ricevuto anche questa foto con la dicitura che vi copincollo
foto degli ultimi abitanti del "borgo Floùr", anch'esso "inghiottito" dal lago di Redona.
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