Vi presento la Petuccia, non cercatela al di fuori del territorio, perchè non la trovate. E' solo da Pasqua che l'ho vista sul banco dell'unica cooperativa del paese in montagna.
L'avevo già trovata a Forni di Sopra e avevo avuto modo di assaggiare diverso tempo fa la Pitina originale di Tramonti di Sopra in occasione di un bel giretto sul Mont di Rest che è proprio vicino ad Ampezzo ... valicato il Mont di Rest, c'è subito Tramonti, dove coltivano da secoli la produzione di questo prezioso salume.
La polenta e il formaggio di malga accompagnati alla Petuccia, sono d'obbligo naturalmente e un tempo era cibo da Re.
L'ho portata a MI e Matteo mi ha detto, ma mamma, ne hai portata solo una ? ecchenesò, all'Orsopadre non piace, la mangio solo io ... bè mi ha risposto, questa la requisisco, tanto tu la trovi ancora in montagna.
E pensare che avevo della buona polenta a fette da grigliare, del buon formaggio di malga e mi è rimasta la lingua fuori.
Pazienza ^___^
Pitina e verzottino condito con olio pepe e sale
La pitina è un prodotto a base di carne di pecora, capra o selvaggina, prodotta tradizionalmente nelle zone montane del Friuli Venezia Giulia, in particolare nel comune di Tramonti di Sopra e nelle zone limitrofe della Valtramontina, in provincia di Pordenone.
La pitina è classificata tra i salumi, anche se non è propriamente un insaccato, ha la forma di una grande polpetta e l'impanatura con farina di mais.
La pitina viene prodotta anche nelle sue due varianti: la peta di Andreis , che si distingue dalla pitina per le dimensioni più grandi e la petuccia di Claut, che viene ottenuta con un diverso trito di erbe aromatiche aggiunte all'impasto.
Ma peta e petuccia sono prodotti più commerciali, a differenza della pitina che, invece, nel corso dei secoli è rimasta fedele alle origini, grazie ai macellai della zona.
Fin dal 1800, in epoche molto meno abbienti di quella attuale soprattutto per le zone di montagna, nelle malghe della Valtramontina quando si ammalava una pecora, o quando una capra si rompeva una zampa, o quando venivano cacciati e uccisi camosci e caprioli, si trovava il modo di non sprecare nulla dell'animale appena morto, quindi, mentre una parte delle carni era destinata al consumo immediato, tutto il resto doveva essere conservato il più a lungo possibile.
Nacquero così le pitine, che altro non sono che polpette di carne macinata, passate nella farina di mais e poi messe ad affumicare e a stagionare per fare in modo che potessero durare mesi in dispensa e garantissero la sopravvivenza nei momenti più difficili.
Le pitine hanno sempre avuto una diffusione strettamente localizzata in Valtramontina e in poche altre zone montane del Friuli.
Una volta recuperato l'animale, capra, pecora o camoscio che sia, lo si disossa e le sue carni vengono triturate nella pestadora (un recipiente incavato nel legno). All'impasto vengono aggiunti sale, aglio, pepe nero e aromi, di solito erbe alpine, e anche una piccola percentuale di grasso di maiale che ingentilisce il sapore selvatico della pitina.
Poi si continua a lavorare l'impasto con le mani formando delle polpette rotonde e un po' appiattite.
Queste vengono passate nella farina di mais e poi poste su mensole di legno in un locale adibito all'affumicatura per combustione di legno di faggio.
Infine si lasciano stagionare per almeno 30 giorni.
Una volta pronta, la pitina si presenta come una palla gialla, per via della farina di mais, con chiazze dovute a delle muffe innocue, viene quindi spazzolata e lavata con acqua e aceto e consumata cruda a fette abbinata al pane, oppure cotta bollita nel latte o rosolata in padella con il burro e accompagnata da cipolle, patate o polenta.
Pallotte di Pitina pronte da infarinare con farina di mais
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